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  • Gli occhi della diaspora

Gli occhi della diaspora

    Gli occhi della diaspora

    Tutto crollò in un baleno. Così all’improvviso e a tradimento. Tutta la nostra sicurezza e le nostre ambizioni finirono in sei giorni. Finirono in fondo a un pozzo oscuro. I profughi si riversarono dai territori occupati come un fiume in piena. Lo scenario era apocalittico e la confusione regnava dappertutto; durante quel rapidissimo conflitto ci avevano fatto credere che eravamo noi ad avere la meglio. […] Forse quella presa in giro fu la cosa più dolorosa, quella che ci lasciò la ferita più profonda. Dovevamo affrontare una sconfitta esterna e un’altra dentro noi stessi, nella delusione totale.

                         Y. Tawfiq – La straniera

     

    Ogni giorno bisogna inventarsi una nuova vita per affrontare l’istinto involutivo che, fin dalla nascita, governa l’uomo e non si cura della poesia, della bellezza e della libertà del mondo all’interno del quale gli esseri umani nascono per creare e conoscersi, per intrecciare relazioni e per apprendere ognuno dall’altro, senza mai limitare i confini della propria e altrui libertà. In questa ricerca continua di mezzi di difesa si tende a perdere il senso della vita, costretti ad occuparsi di un mondo parallelo in cui non è più il cuore a decidere ma la spada.

    C’è chi però non smette di combattere, chi continua a ricercare e tenta di riconquistare il mondo naturale in cui è nato: chi lo fa, decide di stare sempre dalla parte giusta della vita e di contrastare con la creazione di valore le imposizioni che provengono da chi ha annientato la natura delle cose. E così, se qualcuno vuole distruggere il mondo, qualcun altro deve inventarne uno più bello per vincere su quel sopruso: quest’altro mondo è la creazione con le sue diverse sfaccettature che, tutte belle, dipendono da ciò che siamo, viviamo e respiriamo fin dal nostro concepimento. Il nostro corpo, la nostra mente sono la risposta a ciò che l’ambiente ci offre e se l’ambiente offre libertà, la nostra vita sarà libera; se l’ambiente offre violenza e costrizione, allora, la nostra vita subirà delle deformazioni che difficilmente riusciremo a sanare, se non rinunciando a molte cose: gli affetti, i luoghi natii, gli odori di casa, il sorriso, l’amore. La rinuncia implica soprattutto un cambio di rotta, impone di andare contro natura e quindi impone un movimento, movimento mentale e, più spesso, fisico.

    La storia è movimento, migrazione, cambiamento ma, quando obbligato, diventa storia riflessa, quella che non possiamo fare ma a cui possiamo solo assistere. Il cambiamento diviene allora inevitabile, bisogna che il nostro luogo diventi tutti i luoghi e, nella ricerca ossessiva di una somiglianza che mai tale sarà, si ricomincia una vita nuova in un limbo di perpetuo vagare.

    Il senso della diaspora è tutto ciò: continui cambi di rotta, violente virate verso l’ignoto e voli metaforici senza possibilità di guardarsi indietro. Non si sa cosa avviene esattamente ma si sa solo che bisogna allontanarsi dal luogo cui si sente di appartenere. Ha così origine quel movimento obbligato e violento che provoca spaesamento e meraviglia, letteralmente disseminazione, dispersione, un movimento irregolare provocato da una forte spinta che può determinare, però, anche la nascita di una nuova vita. La spinta oggigiorno è la violenza delle guerre, il dominio di uomini su altri uomini e la ragione di quella violenza non è mai dichiarata ma tutti la possono immaginare. A tutto questo assistiamo da anni, soprattutto dopo la seconda Guerra mondiale: a movimenti continui di uomini che non sanno dove andare ma fuggono e, loro malgrado, sono costretti a fermarsi in un luogo che non scelgono. Si potrebbe far riferimento a tanti paesi europei ma qui restringiamo il grandangolo di questa esplosione all’Italia, paese di sole e sogni per molti, che, alla luce del progresso, si riduce sempre più ad un elargitore di rara e incompleta accoglienza per chi arriva da realtà difficili, altrimenti definite impossibili. Per fortuna, chi arriva è preparato, almeno inizialmente, alle difficoltà anche se col tempo, e con amarezza, dovrà constatare che quell’accoglienza non solo gli sarà negata ma si farà di tutto perché, al vuoto della dispersione, si aggiunga il “prelievo” lento e costante della propria dignità.

    In questo contesto un esempio di contrasto positivo alla politica dell’annullamento è l’attività degli artisti stranieri che, qui come altrove, vivono e ci raccontano finalmente con i loro occhi e con la stessa obiettività di chi li ospita, la realtà di questa sponda mediterranea che tende a mimetizzarsi nel reiterato slancio di voler trovare soluzioni per quella opposta, relegando ad un problema di confini le difficoltà di convivenza. Tra questi, gli scrittori che vengono raggruppati sotto la denominazione di scrittori migranti, all’interno di quella che è stata definita “letteratura di migrazione”, riescono a tradurre in versi e prosa ciò che l’impatto con l’altro provoca in loro, regalandoci analisi e immagini che, attenti al nostro egocentrismo e al costante giudizio, noi non riusciremmo mai a cogliere.

    In Italia, tale letteratura nasce e si diffonde agli inizi degli anni Novanta, quando cominciano a divenire sempre più evidenti, quei movimenti migratori iniziati, con blandi episodi, già alla fine degli anni Settanta, soprattutto con l’arrivo di cittadini marocchini e tunisini. E’ una letteratura che nelle prime espressioni si fa testimone della vita difficile degli immigrati e delle discriminazioni che quotidianamente essi subiscono nel nostro paese. Gli stessi stranieri, i migranti, scrivono, sotto forma di racconti autobiografici, le difficoltà di inserimento e di convivenza con gli italiani. Col tempo tale letteratura si evolve e diventa sempre più partecipe della realtà nazionale e della letteratura “classica”. Così gli scrittori migranti, residenti in Italia da più di un decennio, riescono ad assicurasi uno spazio in libreria che non riporta più l’etichetta di “etnica” o “straniera” ma appaiono finalmente catalogati in ordine alfabetico come gli altri. Il tipo di romanzo o racconto cui ci si riferisce è il passo successivo, che va oltre la testimonianza iniziale. Esso contiene finalmente la vita vissuta, da questi scrittori, in un paese straniero a contatto e in una dinamica di scambio, in corso o passati, con la realtà che hanno dovuto far propria. Una realtà che essi rispettano in tutte le sue manifestazioni ma che ci raccontano vista e analizzata da un altro sguardo, il loro, diverso e complementare al nostro, con la sollecitazione, attraverso diverse forme d’arte, allo scambio reciproco.

    Esempi di tale scrittura li troviamo in diverse opere pubblicate in Italia e in particolare di artisti, intellettuali e giornalisti che hanno dovuto abbandonare le proprie terre per motivi non meramente economici e che hanno scelto il nostro paese come altro luogo di vita possibile. L’area geografica di provenienza di tali autori è quella che potremmo racchiudere in quel meraviglioso nome che le è stato attribuito secoli fa: il Mediterraneo, qualcosa che riesce a stare in mezzo alle terre e allo stesso tempo tenerle insieme, terra e mare di incontri, di unione, di collaborazione e di scambi. Purtroppo quegli scambi, una volta semplici e utili in modo reciproco ai popoli che li attuavano, si sono trasformati col tempo in prelievi di terre, denaro, uomini e sangue ma soprattutto hanno fatto tabula rasa della dignità umana, da ambo le parti e per motivi diversi. E il Mediterraneo non può non far pensare ai teatri di guerra che continuano a riproporsi uguali e costanti nei pretesti ma diversi nei personaggi e nei colpi di scena. E tali disagi, che le guerre provocano, li ritroviamo nelle espressioni artistiche che da questi autori prendono forma, che ci chiamano e richiamano ad un’attenzione che, noi tranquilli uomini del presente, abbiamo riposto negli scompartimenti della nostra routine e che riusciamo a rivitalizzare solo se all’improvviso un evento drammatico ci tocca in prima persona. L’opera di continua ricerca e di esortazione al dialogo, cui gli autori migranti cercano di risvegliarci, viene espressa attraverso i loro libri che sono il giusto controcanto ai soliloqui del nostro sé, che si alimenta in un egocentrico sguardo monodimensionale e non rispetta né rispecchia gli innumerevoli e contemporanei riflessi in cui la realtà umana si esprime. La gamma delle opere di autori stranieri pubblicati in Italia su tale argomento spazia dal genere drammatico, al surreale, all’ironico, al sentimentale, al finto poliziesco. Solo per fare alcuni nomi potremmo prendere come esempio il funambolico, e sottilmente ironico, Divorzio all’islamica a viale Marconi dello scrittore e giornalista algerino Amara Lakhous, oppure lo struggente e intenso La straniera del poeta e scrittore iracheno Younis Tawfiq o il poetico Pantanella. Canto lungo la strada dello scrittore-regista tunisino Mohsen Melliti.

    In modo diverso e con ri-scritture poliedriche leggiamo e possiamo guardarci con altre prospettive. I personaggi-autori che, tra le righe e con elegante maestria, ci parlano di loro e di noi, diventano una palese espressione della teoria saidiana dell’Orientalismo e si scopre che non esiste distinzione, non esistono orientali né occidentali, non esistono migliori o peggiori, superiori o inferiori: siamo tutti esseri umani accomunati da una peculiarità, la vita. Così il personaggio de La straniera, affermato architetto in una Torino ricca e produttiva, resta per tutti, sempre, lo straniero che non appartiene a quei luoghi. Il suo inconscio senso di inadeguatezza lo porterà a non integrarsi mai in quella realtà, costretto a rinunciare a tutto ciò che lo potrebbe far rinascere, e la rinuncia è soprattutto all’amore, spinta e motore della vita. L’ambiente in cui vive gli impone-ricorda ogni giorno che la sua è una continua fuga, un esilio, una costante rinuncia e un’impossibile (opportunità di) felicità. L’amore lontano dalle proprie origini non è veritiero, sincero o meglio, nell’accoglienza di un amore offertogli da una straniera come lui, ci sarebbero l’accettazione della sua condizione di esule e le “stigmate” della sua diversità, in una relazione tra due solitudini che, seppur con percorsi diversi, sentono di non aver mai lasciato le proprie origini, nella schizofrenia di doversi sentire altro per essere accettati.

    Nei romanzi-gialli di Amara Lakhous è posto in evidenza il problema della convivenza nell’ambito più ampio delle nostre piccole società, come il condominio di Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio o il quartiere di Divorzio all’islamica a viale Marconi, in cui vengono chiaramente presi in considerazione atteggiamenti discriminatori sia degli autoctoni sia degli stranieri: questi ultimi continuano a mantenere, pur in un altro paese e in condizioni di vita diverse, le pratiche e gli usi mai lasciati in patria, sommando astio ad altro astio. Un aspetto peculiare che può fungere da esempio è l’esilarante quanto triste, nel suo significato più profondo, questione del velo. Poiché è uno dei segni più evidenti cui potersi appellare per ribadire e rifiutare le differenze da ambo le parti, l’autore, che in altri momenti sottolinea l’estremo rigore delle regole musulmane, difende quell’accessorio come specificità dell’identità femminile araba. Ma tutto il racconto si snoda su un malinteso e sulla mancanza di fiducia, non volendola definire razzismo, nei confronti di cittadini stranieri che, per motivi diversi, vivono in questo paese. Anche qui la società è presentata insofferente al nuovo e all’altro, con forti episodi di intolleranza come quelli contenuti nelle pagine dedicate all’anziano leghista che legge solo quotidiani padani e odia i comunisti e, più intensamente, elargisce pillole di sfacciata misantropia …

    Più toccante e conforme alla realtà il leggero quanto amaro racconto dell’edificio di Pantanella di Mohsen Melliti. Suo malgrado, una folta comunità di immigrati deve “sopravvivere” in un enorme palazzo dove, un tempo, si impastavano farina e acqua e dove ora, invece, si mescolano vite ancorate a piccole speranze di un’esistenza normale, in cerca di un lavoro semplice, di un po’ di tranquillità e di un po’ di musica per mandar via quell’insostenibile sentimento di nostalgia che accompagna chi è costretto a lasciare il proprio paese. Giovani vite che si trovano ad essere già vecchie per la mancanza di speranza che la terra ospite spegne in quotidiani episodi di emarginazione. Lo spazio in cui lo straniero può vivere è sempre lontano dalla vera realtà storica: lo straniero, secondo la nostra società, deve rimanere a margine, non ha possibilità di riscatto, è considerato senza sentimenti, incapace di coltivare un sogno, di realizzare un progetto e soprattutto di avere gli stessi diritti e gli stessi doveri dei propri cittadini perché, al di fuori dei luoghi preposti, lo straniero non esiste. In Melliti la sollecitazione agli stranieri come lui, ai suoi fratelli, è la tenacia ad andare sempre avanti, a non lasciarsi scalfire dai soprusi dell’altra società che accetta e accoglie solo le omologazioni e, più ancora, a cercare di migliorarsi con passione e coraggio, attraverso la conoscenza e l’istruzione. Esse hanno sempre costituito l’unico terreno non violento su cui combattere quegli episodi di onnipotenza di alcuni che, mascherando forti debolezze, hanno invece annientato milioni di persone innocenti che potevano, con gli altri, fare la differenza.

    Eccolo sul ponte sospeso parecchi metri sul fiume. “Prima di gettarsi Ahmad gridò o forse cantò, aveva scritto un messaggio, ma non sapeva se lo aveva scritto per se stesso o per un amico che non era ancora arrivato: B…A…S…T…A!” (M. Melliti, Pantanella. Canto lungo la strada).

    Adriana Buongiovanni

    Tag:arte, la pagina delle idee, letteratura

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